Rimini da mesi sta affrontando una discussione che potrebbe essere molto importante: quella del Piano strategico, nella mistica cittadina viene affrontato con effetti taumaturgici per le svariate esigenze di riqualificazione che grandi aree necessitano, specie nella zona mare. La stagione di pianificazione flessibile e strategica nasce e si sviluppa in un periodo in cui l’intervento pubblico si contrae in tutti i campi, incluso quello della pianificazione.
Questo strumento che potrebbe avere importanti e positivi effetti sul futuro della città, nei fatti rischia di trasformarsi in un pannicello caldo con cui affrontare le gravi e stringenti necessità di riorganizzazione e rilancio di Rimini attraverso anche, e forse soprattutto, le politiche territoriali. Il Programma di mandato pone molta importanza a due elementi: la partecipazione e il Piano strutturale, ossia uno strumento in grado di riorganizzare con atti normativi le criticità del territorio, quantificare le necessità di servizi e praticare concretamente la riduzione del consumo di suolo libero, applicando anche strumenti reali per ridurre l’enorme pressione che la rendita immobiliare sta attuando sui cittadini.
Sappiamo da tempo che più si costruisce, più aumentano i costi degli immobili e questo processo di massimizzazione dei profitti attraverso il mercato degli indici edificabili va a tutto svantaggio delle classi sociali più deboli; inoltre, la rendita non reinveste le proprie risorse su fattori produttivi, creando così lavoro e maggiore ricchezza, ma investe su fenomeni speculativi.
Il Piano strategico, che di fatto rischia di sostituire atti di carattere normativo, rischia di produrre una politica del governo del territorio basata su grandi progetti di trasformazione i quali saranno presentati come accordi tra pubblico e privato, su cui il potere di controllo e di proposta rappresentato dagli organismi eletti dai cittadini, e quindi i cittadini stessi, avrà scarsissime possibilità di intervenire. I nodi della pianificazione strategica a mio avviso sono i seguenti:
1.quello della effettiva partecipazione dei cittadini ai processi di formulazione e decisione;
2.collegato al primo c’è quello della disuguaglianza tra soggetti/interessi, determinata dalla loro diversa capacità contrattuale. Tra gli interessi privati, vi sono quelli imprenditoriali e immobiliari “forti”e vi sono quelli “diffusi”, cioè quelli di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse per una comunità, piccola o grande che sia.
Questi ultimi attori generalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni, ma sono comunque in grado di organizzarsi. Vi sono poi gli interessi “deboli” che spesso non riescono nemmeno a mobilitarsi (gli “esclusi”). Chi rappresenta gli interessi deboli e dà voce agli esclusi?
3.Il rapporto tra autorità pubblica (teoricamente garante del bene collettivo) e interessi privati, specie nel caso di iniziative a capitale misto. Chi indirizza chi?
4.Strettamente collegato ancora è il problema della definizione dell’interesse pubblico/collettivo/comune di cui l’autorità pubblica dovrebbe essere garante. Un rischio, è la strumentalizzazione del piano, attraverso la finzione demagogica del consenso, per legittimare scelte di gruppi di interesse ‘forti’, già prese altrove. Altro rischio è l’adozione di una visione strategica ‘alla moda’ per ottenere ampi consensi, senza che vi siano i presupposti locali per raggiungere quel tipo di obiettivi. L’ossessione con la necessità di essere “competitivi” ha portato all’imitazione acritica di modelli già sperimentati in località centrali, contribuendo ad un “appiattimento” della visione strategica e alla scomparsa della diversità.
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